In seguito all’emanazione del Decreto Ministeriale per le fonti rinnovabili non fotovoltaiche – DM 23 giugno 2016 – i primi impianti Solari termodinamici (CSP) per la produzione di energia elettrica su scala industriale di piccola/media dimensione vedranno la luce nel corso del 2017. I risultati dell’iscrizione ai registri del GSE sono più che soddisfacenti (33 MW presentati sui 20 MW previsti dal Decreto), mentre per le aste è andata peggio, con la presentazione di un solo impianto da 41 MW sui 100 MW disponibili.
Ciò dovrebbe comunque permettere alla filiera italiana del settore di poter costruire alcuni impianti in Italia, in particolare con la tecnologia a sali fusi messa a punto da ENEA, e potersi quindi presentare, con un concreto bagaglio di competenze, sui mercati emergenti ove sono previsti nei prossimi anni importanti investimenti proprio nel solare termodinamico.
Ma, al di là delle problematiche legate all’incentivazione, che restano comunque prioritarie per una tecnologia nuova, ancora costosa e senza una storia impiantistica, una difficoltà che i nuovi impianti CSP hanno incontrato nel corso della fase autorizzativa è legato al difficile rapporto con il territorio ove dovrebbero sorgere. In Sicilia, in Basilicata e in particolare Sardegna, le regioni dove sono in progetto alcuni impianti di media dimensione (circa 50 MW), sono subito sorti comitati contrari alla realizzazione degli impianti che ben presto hanno alzato la voce sui media locali ed esercitato una forte pressione sugli Amministratori locali.
Le motivazioni di tali proteste sono molto varie ma, se vogliamo, già viste in molte altre occasioni: progetti calati dall’alto, deturpazione del territorio, pericolosità per l’ambiente, modifica della vocazione agricola o turistica del territorio, speculazione economica alle spalle degli abitanti.
Visto che si tratta di impianti con una nuova tecnologia, vanno precisati alcuni aspetti legati ai loro impatti ambientali: anche se è pur vero che la criticità di un impianto solare termodinamico è l’occupazione di suolo, bisogna tenere presente che gli specchi sono sollevati dal terreno di circa 6 metri e che la superficie di suolo effettivamente impermeabilizzata non supera il 4% dell’intera area. Senza contare che al di sotto degli specchi si possono far pascolare pecore o altri animali, sfruttando quindi la zona occupata dall’impianto per l’allevamento. Su questo aspetto è importante valutare poi l’utilizzo dei terreni: se sono abbandonati e non coltivati, come è il caso in alcune situazioni in Sardegna, l’inserimento di un impianto CSP non incide in maniera significativa sulla vocazione agricola del territorio.
Parimenti è importante sottolineare come i sali fusi, una tecnologia tutta italiana, non siano dannosi per l’ambiente e superino gli aspetti di pericolosità dati dagli impianti a olio diatermico, molto comuni in Spagna.
Ma soprattutto è importante sottolineare che si sta parlando di un impianto rinnovabile a fonte solare programmabile. A differenza del fotovoltaico infatti il solare termodinamico permette uno storage del calore fino a 24 ore e la produzione di energia elettrica quando effettivamente richiesta dalla rete.
Fatte queste precisazioni sulla tecnologia, va anche detto che il problema dell’accettabilità sociale di un impianto innovativo che pochi conoscono e senza esempi in Italia, dovrebbe essere accompagnata da una condivisione profonda del progetto con il territorio dove lo si vuole realizzare, informando prima di tutto e poi trovando delle modalità partecipative in grado di superare la diffidenza e avvicinare gli abitanti a questo tipo di impianti.
Troppo spesso infatti, ed è il caso di alcuni progetti CSP in corso di autorizzazione, gli impianti vengono decisi senza pensare a un adeguato piano di informazione e condivisione con gli attori territoriali.
L’accettabilità sociale forse passa anche attraverso un’adeguata formazione degli imprenditori.